In occasione della festa liturgica di San Giovanni Paolo II, abbiamo incontrato don Andrea Domanski, sacerdote polacco, vicario episcopale della diocesi di Tempio-Ampurias e parroco della parrocchia di Santa Giusta a Calangianus. Don Andrea ci ha raccontato chi era Giovanni Paolo II e l’influenza profonda che il pontefice ha avuto sulla sua vita e sul suo cammino sacerdotale.
Domani, 22 ottobre sarà la festa liturgica di San Giovanni Paolo II. Essendo lei polacco, in che modo il pontefice ha influenzato la sua vita personale e il suo cammino sacerdotale?
Non posso dire diversamente, ha influenzato tantissimo. Nel momento della sua elezione, nel ’78, io ero appena un dodicenne, un ragazzo che si affacciava alla vita. Facevo parte del gruppo liturgico della parrocchia e stavo entrando a far parte del movimento “Luce e Vita”, di cui Giovanni Paolo II era un grande sostenitore ai tempi in cui era vescovo di Cracovia. Questo movimento ha formato tantissimi giovani in Polonia, ed è stato in quel contesto che è maturata la mia vocazione e la decisione di diventare sacerdote.
Un episodio significativo si è verificato alcuni mesi prima della maturità: ho avuto la grazia di partecipare a un’udienza col Papa a Roma nel 1985, durante l’Anno Internazionale della Gioventù, che sarebbe poi diventato l’inizio delle Giornate Mondiali della Gioventù. In quell’occasione, durante la Domenica delle Palme, ho avuto l’opportunità di un incontro personale con lui e gli ho confidato la mia decisione di entrare in seminario. Gli ho chiesto la sua benedizione, che mi ha dato con grande affetto.
Dove si trovava il giorno in cui, nel 1978, Papa Giovanni Paolo II celebrò la Messa di inizio pontificato e pronunciò la storica frase: “Non abbiate paura”?
Era una domenica, e ricordo che ero insieme a tutta la mia famiglia, incollati alla televisione. Anche la televisione del regime comunista in Polonia, non poteva fare a meno di trasmettere la Messa. Forse è stata la prima Messa trasmessa in quel contesto di regime. Eravamo tutti lì, davanti allo schermo, partecipando in questo modo alla celebrazione. Ogni parola che ci arrivava era significativa e profonda.
La frase ‘Non abbiate paura!’ è diventata il motto del pontificato di San Giovanni Paolo II. Cosa significa per lei questo invito alla fiducia e come crede che possa ispirare i fedeli oggi?
Credo che quella frase, “Non abbiate paura”, sia sempre più attuale. Ma c’è un aspetto fondamentale da aggiungere: quella frase è seguita da un’altra che ne spiega bene il significato, ovvero il motivo per cui non dobbiamo avere paura. L’altra frase è: “Aprite le porte a Cristo”.
In un tempo di scetticismo, cinismo e secolarizzazione, colpisce la convinzione profonda di Giovanni Paolo II che Gesù Cristo sia la risposta alla domanda sul senso della vita di ogni uomo. Questa convinzione lo ha aperto a un vasto mondo di dialoghi e incontri con coloro che erano diversi, dando un impulso importante alla Chiesa e mandando un segnale di apertura al mondo. Sembra che quei tempi siano lontani, ma la risposta rimane la stessa: “Aprite le porte a Cristo” e non dovrete avere paura di nulla.
Quali aspetti del pontificato di Giovanni Paolo II ritiene più importanti per la Chiesa di oggi? In che modo il suo insegnamento continua a essere una guida per il clero e per i fedeli?
Giovanni Paolo II è stato tanto applaudito, ma forse meno ascoltato. Lui stesso, con qualche battuta, riconosceva questo fatto. Credo sia arrivato il momento di fare tesoro della ricchezza dei suoi insegnamenti. Un aspetto fondamentale del suo pontificato è stato il concetto di libertà: Giovanni Paolo II insisteva molto nel collegare la vera libertà umana alla verità, in particolare alla verità morale. Per lui, vivere nella verità era necessario per vivere una vita nobile e davvero libera. Insegnava che la scelta non è tutto e che la libertà, se non è legata alla verità e al bene, diventa una forma ingenua di libertà.
Un altro aspetto è la sua rivoluzionaria “teologia del corpo”, un insegnamento ancora tutto da scoprire e che oggi può essere particolarmente utile in un tempo di confusione, soprattutto riguardo alle questioni legate all’ideologia di genere. Al centro delle discussioni odierne c’è la questione antropologica: capire chi è veramente la persona umana. Questo è un punto cruciale del dibattito sociale odierno, e Giovanni Paolo II ha dato un contributo profondo in questo senso.
Infine, vorrei sottolineare la sua spinta per la nuova evangelizzazione. Nuova perché deve trovare nuovi areopaghi, cioè nuovi spazi nel mondo, soprattutto nella cultura. Giovanni Paolo II ci ha insegnato che la Chiesa non è chiamata a imitare la cultura, ma a portare Cristo e a trasformare la cultura.
San Giovanni Paolo II ha viaggiato in tutto il mondo incontrando persone di tutte le culture. C’è un momento particolare del suo pontificato che lei ricorda con affetto?
Qui c’è davvero l’imbarazzo della scelta, perché i momenti sono tanti. Ho avuto la fortuna e la grazia di partecipare a tutti i viaggi di Giovanni Paolo II in Polonia, dal 1979 fino al 1995, finché sono rimasto nel mio paese. Ricordo particolarmente il 1983, un periodo difficile per la Polonia, che stava uscendo dalle leggi marziali imposte dal regime comunista dopo la rivoluzione di Solidarność. Giovanni Paolo II ha avuto un ruolo cruciale nel sostenere questo movimento che ha scosso non solo la Polonia, ma tutto il blocco sovietico.
Un altro momento che mi è rimasto nel cuore è stata la veglia a Częstochowa, nello spiazzo intorno al santuario della Madonna Nera. Lui parlava ai giovani dell’importanza di essere uomini e donne di coscienza, e legava questo concetto alla spiritualità mariana. Quella veglia è rimasta impressa nella mia memoria.
E poi, c’è la Giornata Mondiale della Gioventù a Roma nel 2000. In quel momento ero già a Roma per i miei studi e ho avuto l’opportunità di collaborare all’organizzazione per i gruppi polacchi. Ricordo la veglia a Tor Vergata, dove Giovanni Paolo, nonostante le difficoltà di salute, dimostrò una forza spirituale incredibile. Ci affidò il compito di essere le “sentinelle del mattino”, portatori di speranza. È un ricordo che porterò sempre con me.
Da sacerdote polacco, in che modo sente la responsabilità di portare avanti il messaggio e l’eredità spirituale di San Giovanni Paolo II?
Certo che, da sacerdote polacco, sento molto questa responsabilità. Vivendo in Italia da tanti anni, ho avuto la grazia di vedere quante porte si sono aperte grazie a lui. Ogni volta che qualcuno incontrava un sacerdote polacco, il primo riferimento era sempre a Giovanni Paolo II. Questo sbloccava tante situazioni e davvero apriva tante porte. Sento fortemente la responsabilità di portare avanti il suo messaggio.
Giovanni Paolo II è stata una persona molto amata dagli italiani, e questo mi ha colpito tantissimo in vari momenti. La sua capacità di entrare nella vita delle persone è stata percepita come quella di uno di casa. Quando ero già parroco di Moneta, a La Maddalena, durante la sua malattia e la sua morte, ho percepito il dolore delle persone come la perdita di un caro, come se fosse un membro della famiglia.
L’eredità di Giovanni Paolo II la sento nel fatto che lui fosse moderno nella forma, ma molto fedele e, nel senso buono, un conservatore nel contenuto della fede. Alla fermezza dottrinale si univa una straordinaria apertura verso tutti, anche verso chi era lontano dalla Chiesa. Sapeva parlare a tutti e ascoltare tutti. La sua capacità comunicativa, frutto anche del suo talento come attore, poeta e drammaturgo, era messa a servizio della sua opera apostolica, senza escludere nessuno.
Le sue lotte, iniziate nei tempi in cui era sacerdote, cappellano universitario, professore, vescovo e cardinale di Cracovia, e poi papa, sono un altro aspetto della sua eredità. Ha affrontato le difficoltà della Seconda Guerra Mondiale, del regime comunista e della secolarizzazione, non con rassegnazione, ma con determinazione. Anzi, queste difficoltà sembravano dargli più forza. La sua lotta per mettere Cristo al centro e portare il messaggio di Cristo a tutti è l’eredità spirituale che ha affidato non solo ai sacerdoti polacchi, ma a tutta la Chiesa.
Un momento significativo è stato quando, dieci anni fa, in occasione della sua canonizzazione, ho chiesto tramite l’allora vescovo, monsignor Sebastiano Sanguinetti, al Cardinal Dziwisz, le reliquie di Giovanni Paolo II, e sono state concesse. Nella chiesa di Moneta, ci sono le reliquie del suo sangue. In questi anni ho visto quante persone andavano a pregare davanti a queste reliquie, quanti turisti si fermavano per un momento di preghiera. Credo che questi segni tangibili siano importanti. Abbiamo bisogno di qualcosa di concreto, e queste occasioni preziose ci aiutano a ritrovare e comprendere l’eredità spirituale che ci ha lasciato, non solo come un ricordo emotivo o sentimentale, ma come una realtà spirituale che continua a essere presente.